L’imitazione (dupe): adulazione o contraffazione?

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Agli utenti più attivi sui social media, specie su Instagram e su Tik Tok, non sarà sfuggita la c.d. dupe culture, ovvero la nuova tendenza ad acquistare, quasi compulsivamente, dei dupe a basso costo, promossi tramite contenuti brandizzati e hashtag.

Ma… cos’è un dupe, esattamente? E quali problematiche nasconde?

Il dupe è l’imitazione meno costosa di prodotti di fascia alta, conosciuti ed apprezzati dal pubblico. Se più frequentemente si tratta di prodotti beauty o di abbigliamento, i dupe possono essere realizzati per qualsiasi tipo di articolo.

A fronte di una grande varietà di prodotti, si riscontra una sorta di omogeneità in relazione ai destinatari di tali contenuti: i giovani consumatori – più attivi sui social, più esposti ai trend, e allo stesso tempo privi di grandi risorse economiche.

E dunque non solo l’influencer ma anche l’utente medio si appresta a raccomandare, suggerire, presentare, condividere e testare i dupe, inconsapevoli, entrambi, di promuovere – talvolta – veri e propri articoli contraffatti (volgarmente indicati come “falsi d’autore”).

Ci si chiede dunque se dupe sia sinonimo di “contraffatto” o se esistano dei limiti entro i quali può dirsi invece lecito.     

Per rispondere a questa domanda possiamo analizzare, per inverso, l’estensione della tutela accordata prevalentemente tramite disegni e modelli, nonché marchi e diritto d’autore, alla forma o all’aspetto esteriore dei prodotti che, da ultimo, è ciò che induce tanti consumatori ad acquistare i dupe.

I. Disegno e modello: utilizzatore informato vs “consumatore consapevole”

I disegni e i modelli permettono di tutelare l’aspetto esteriore di un prodotto che sia nuovo e dotato di carattere individuale, trattasi tanto di prodotti tridimensionali – la forma o la struttura di una borsa, di una scarpa – quanto bidimensionali – la linea, i materiali, i motivi. 

Se la registrazione di un disegno o modello accorda una protezione che dura 5 anni (rinnovabile fino a un massimo di 25), l’ordinamento non lascia scoperti i modelli non registrati, i quali ricevono invece una protezione di 3 anni dalla prima divulgazione in un ambiente specializzato, quale può essere, ad esempio, una sfilata o una pubblicazione su una rivista di settore. 

È doveroso però sottolineare che la differenza tra il modello registrato e quello non registrato non si esaurisce in una mera estensione temporale, ma si apprezza sotto una serie di altri aspetti.

Primo tra tutti, mentre il disegno o modello registrato gode di una presunzione di validità e conoscibilità, quello non registrato impone al titolare, all’occasione, di provare la sussistenza di carattere individuale e novità e, soprattutto, al fine di escludere l’incontro fortuito, la conoscibilità da parte del preteso contraffattore del prodotto divulgato, rendendo meno agevole un’eventuale azione a tutela del proprio diritto.

Per questi motivi, sebbene l’intenzione iniziale del legislatore europeo fosse quella di equiparare la forza delle due privative, dottrina e giurisprudenza [1] ritengono da tempo che il modello non registrato possa ricevere tutela solo contro copiature intenzionali e deliberate – trattasi di casi in cui c’è una “assoluta sovrapponibilità delle forme”[2]

A prescindere dalla registrazione, in ogni caso, i requisiti di novità e carattere individuale saranno sempre e comunque apprezzati dal punto di vista del c.d. utilizzatore informato, ovvero un soggetto al bivio tra il consumatore e l’operatore professionale.

Quest’ultimo, nell’apprezzare il “carattere individuale” sarebbe in grado di carpire la c.d. “impressione generale” resa dal disegno o modello in esame, e di confrontarla con tutti quelli precedentemente divulgati, anche tenendo conto del margine di libertà di cui disponeva l’autore nel processo creativo.

Tale margine può essere più o meno ampio a seconda del tipo di settore o dei particolari vincoli tecnici imposti dalla natura del prodotto. Si pensi al numero sconfinato di jeans aventi caratteristiche simili che affollano il settore dell’abbigliamento, oppure alla circostanza per cui essi dovranno essere dotati di una serie di elementi comuni a tutti i pantaloni.

Un margine di libertà per l’appunto ristretto comporta che, agli occhi dell’utilizzatore informato, poche differenze permetteranno al nuovo design di dare un’impressione generale diversa dai precedenti e quindi di ricevere tutela; se questo è vero, allora altrettanto “minimali” differenze saranno sufficienti, in sede di giudizio, per escludere la contraffazione dello stesso modello o disegno da parte di terzi. 

Questo parallelismo tra piano della validità e piano dell’accertamento della contraffazione pone tuttavia un problema di coordinamento con la pratica.

Infatti, dal punto di vista della validità, il criterio dell’utilizzatore informato risponde certamente a esigenze di sistema: le differenze evidenti a quest’ultimo possono passare totalmente in secondo piano per un soggetto meno esperto, che non farà tanto caso, ad esempio, ad un certo posizionamento delle cerniere o al tipo di borchie apposte su una giacca.
Adottare il punto di vista del consumatore, dunque, restringerebbe troppo la soglia di accesso alla protezione, in particolare per chi volesse creare in settori ormai quasi saturi.

D’altro canto, ci si può chiedere se il livello di attenzione del consumatore dovrebbe essere rilevante in sede di giudizio. Invero, è ragionevole pensare che nella vita di tutti i giorni raramente un consumatore riuscirà a procedere al confronto diretto tra il prodotto “high end” e il suo dupe.
Pertanto, l’impressione generale che un consumatore medio potrebbe avere passando davanti a una vetrina – impressione che lo spinge ad acquistare un dupe per la somiglianza con il “designer item” – non è la stessa che investirebbe il giudice nel giudizio di contraffazione, dovendo questo adottare il punto di vista di un utilizzatore informato.

Se dunque ritenessimo pacifico che il pubblico degli acquirenti è in larga parte partecipato da consumatori, per quanto mediamente avveduti, questa asimmetria tra punti di vista ridurrebbe il perimetro della privativa del titolare del design.
Il dupe sarebbe dunque lecito agli occhi dell’utilizzatore informato, perfettamente capace di percepirne le differenze con “l’originale”, ed allo stesso tempo in grado di sortire l’effetto sperato nei confronti del consumatore: quello di ingenerare il collegamento mentale con il prodotto imitato o, in alcuni casi, di rendere i due praticamente confondibili.

II.  Tutele alternative: incentivo alla creazione?

Nonostante tali limiti, per le caratteristiche precedentemente illustrate, il modello (registrato e non) si è comunque affermato come un valido strumento per tenere il passo con i ritmi del mondo della moda – ritmi non solo subiti nel backstage delle sfilate ma dettati da vere e proprie esigenze commerciali.

Senonché, il dupe contribuisce a rendere tali ritmi ancora più incalzanti: infatti, la presenza smoderata di “copie” e alternative di tutti i tipi fanno sì che il prodotto innovativo sia percepito come vecchio poco dopo esser stato immesso in commercio, rendendo la forma noiosa, già vista, rimpiazzabile.

Se un capo, fino a qualche anno fa, diventava vintage dopo un ventennio, oggi la fame di novità viene (apparentemente) appagata dal susseguirsi di micro-trend, cioè di tendenze passeggere e di nicchia, cavalcate a ripresa dai produttori per non farsi sfuggire neanche una piccola porzione di consumatori.

In questo quadro di iperconsumismo, il dupe è il punto di congiunzione di un serpente che si morde la coda: allo stesso tempo causa e conseguenza di un affievolimento di valori come la ricercatezza, la creatività, la qualità.  Queste nuove forme di “copiatura” su larga scala sono ormai, in certi casi, un vero e proprio business model – andando ben al di là della sana imitazione che ha per anni caratterizzato il settore della moda. 

Per questi motivi, la disciplina finora esaminata potrebbe rivelarsi insufficiente a tutelare i pezzi che incorporano l’essenza del proprio brand – e che, come tali, giustificherebbero una forma più forte di monopolio sull’aspetto esteriore di un prodotto.

Il marchio di forma e il diritto d’autore si prestano dunque a questi fini, accordando al designer una tutela decisamente più ampia, innanzitutto a livello temporale: il primo è infatti rinnovabile potenzialmente senza limiti, il secondo attribuisce diritti patrimoniali destinati a durare per 70 anni dopo la morte dell’autore e diritti morali imprescrittibili.

Oltretutto, il giudizio di contraffazione è ancorato, nel caso del marchio, al punto di vista del consumatore medio – il che, in contrapposizione ai modelli e disegni, rende più agevole dimostrare la confondibilità per i motivi sopra esposti; a fortiori nel caso di un prodotto originale oggetto del diritto d’autore, non rileva neppure la confondibilità o meno delle opere (al fine di stabilire l’illiceità della riproduzione), guardandosi solo alla ripresa delle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante[3].

All’ampiezza di questa tutela, si precisa, corrispondono una serie di ostacoli alla registrabilità del marchio e al riconoscimento del diritto d’autore, che si rendono necessari se pensiamo a quanto sia peculiare per un consumatore presumere l’origine imprenditoriale di un prodotto in assenza di segni grafici o apprezzarne il suo valore artistico all’esito di una produzione di massa.

In conclusione, in presenza di questo ventaglio di strategie (peraltro cumulabili), è utile notare come, per quanto la parola dupe conservi nella sua etimologia un certo riferimento all’inganno[4] , essa non si atteggi necessariamente a sinonimo di “contraffatto”, giuridicamente parlando, potendo ben qualificarsi come una mera forma di adulazione.

Se tale fenomeno può produrre a breve termine l’effetto positivo dato dall’accessibilità a una serie di alternative a un prezzo ragionevole, d’altro canto, è suscettibile di innescare una corsa alla competitività e un livellamento verso il basso di qualità e innovatività che, in prospettiva, si tradurrebbe in uno svantaggio per il consumatore stesso.

A fronte di un vero e proprio re-branding dell’indossare copie economiche, l’educazione del consumatore si deve affiancare a un’adeguata strategia di tutela tramite gli strumenti della proprietà intellettuale. L’auspicio è quindi, da ultimo, che questi siano sufficienti ad arginare le derive affaristiche e allo stesso tempo ad incentivare i giovani designer a continuare a creare.


[1] Proprietà industriale e intellettuale. Manuale teorico-pratico, a cura di Riccardo Perotti, Pacini Giuridica, 2021, Cap. VII.

[2] Tribunale di Milano, Sentenza n. 6397/2015 (MAX MARA – LIU JO)

[3] Cass. n. 9854/2012;

[4]  dupe / d(y)oōp/• v. [tr.] “deceive; trick”, oppure “short for duplicate, esp. in photography” – da The Oxford Pocket Dictionary of Current English